Double negative - Low


In una landa ghiacciata, in un indefinito confine americano, un padre sta vagando alla ricerca di un'altra traccia di vita, forse suo figlio. Le vetrate di una provinciale Chiesa del Minnesota hanno smesso di illuminarsi da tempo della luce dei suoi fedeli. Il "post" di una civiltà "post" (industriale, elettronica, e chissà cos'altro), è regredito a uno stato primitivo. Le foreste sono ancora lì, gli uomini no.
Su questo scenario, simile ai disegni letterari del romanzo "La strada" di Cormac McCarthy, nel settembre 2018 i Low, gruppo slowcore americano, hanno disegnato una perla di rara bellezza artistica, il disco "Double Negative", fornendo la loro visione musicale (e non) del mondo a venire. Per quale futuro non importa, basti solo ascoltare il primo brano, "Quorum", per capire che i tre musicisti di Duluth utilizzano ciò che c'è di più umano per descrivere l'illusoria idealizzazione (e parte dei fallimenti) della tecnologia.
È nel secondo brano, "Dancing and blood", che emergono le conseguenze e le contraddizioni di questa idealizzazione, rappresentate da un anziano che non vuole rinunciare al naturale percorso della vita, mischiandosi tra i giovani e ballando goffamente e tristemente con loro. O è forse proprio quell'anziano l'unico barlume di saggezza, speranza, metafora di un tempo passato, che balla come perso, nel vuoto di una civiltà abbandonata a se stessa?
Immagini rarefatte, suoni minimalisti, echi del tempo perduto, si susseguono in "Fly" come un delicato album di fotografie sbiadite. Ricordi di una vita, scanditi dalla voce eterea di Mimi Parker.
Sfogliare un album di ricordi, tuttavia, è faticoso: l'inesorabilità del compiuto è forse la cosa più salda a cui ci si può aggrappare, ma richiede un grande sforzo. Ed è proprio questo sforzo che innesca le scariche distorsive di "Tempest", il rovescio della medaglia, il doppio negativo: tutto e il contrario di tutto. L'esplosione, compiuta, lascia spazio alla flebile luce per ritrovare -forse- se stessi, in un'atmosfera quasi soprannaturale, scandita dai suoni cristallini di "Always up". Ma la rinascita dovrebbe compiersi dalle ceneri e dal fumo: una chitarra intona una nenia sorda in "Dancing and fire", ma è solo un'illusione, poiché le condizioni per una rinascita sono comunque incastrate in una dimensione spaziotemporale ripetitiva e vuota, come in "Poor Sucker".
Il percorso è, oramai, un risorgere dallo scompiglio e nello scompiglio: prima del brano fnale, "Disarray", c'è spazio per la song più intensa dell'intero disco, "Rome (always in the dark)", un brano che riecheggia come una lenta scalata verso un luogo di redenzione. "Rome in your passions, couldn't even sigh. Even when they have, to make a roundabout. You were higher water, it's happens in the soul".
La scelta di Roma, culla della civiltà occidentale, che assurge a luogo madre di questa oscurità, è l'emblema dell'evoluzione che si trasforma in involuzione, del futuro che diventa passato: il ritorno a quanto c'è stato di pìù primitivo.
"Double negative" è un vero e proprio capolavoro "post", in cui il freddo minimalismo musicale riesce a scaldare le apparecchiature elettroniche portandole alle estreme sperimentazioni, tra tinte dub e lo-fi, beat grezzi contrapposti a un canto soave, teso a ritrovare una perfetta sintesi della dannata beatitudine umana. Questo perchè? Perchè i Low presentano spietatamente il conto a una civiltà che, con i mutamenti industriali e tecnologici, ha perso la sua naturalezza.
Cosa rimane alla fine dell'ascolto di un così grande disco? La sensazione, è del doppio negativo, tra il "qualcuno o qualcosa se ne andò per sempre" di McCarthy e "non è la fine, è la fine della speranza" di Alan Sparhawk, leader della band. Ma con la consapevolezza che, ancora una volta, la musica può essere ciò che c'è di più umano per una rinascita della civiltà occidentale.


Marco Scanu

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